Il termine tecno-kitsch non è molto usato: ad esempio indica un particolare genere di musica indie; oppure è frequente nel linguaggio giornalistico per stigmatizzare l’invasione di parole tecnologiche nel lessico quotidiano.
In campo artistico assume per lo più valore negativo: ad esempio Paolo Fabbri, in un’intervista su “Doppiozero”, notava che la diffusione del trattamento digitale delle immagini «ne ha facilitato il passaggio nei media e incoraggiato strampalate pretese artistiche: il tecnokitsch, per l’appunto».

Nell’arte, il tecno-kitsch è l’uso improprio o eccessivo di tecnologie digitali: per produrre nuove opere, o per riprodurre e modificare opere esistenti.

Quando si parla di tecno-kitsch bisogna ovviamente ricordare che esiste un’ampia bibliografica sul kitsch pre-digitale, di cui studiosi come ad esempio Abraham Moles hanno messo in luce le caratteristiche principali: un generico significato di “cattivo gusto”; la semplificazione (o banalizzazione) storico-critica; il generico sentimentalismo che si ispira a valori universali; la sovrabbondanza e l’artificiosità “barocche”; l’eccesso di decorazioni e orpelli; la destinazione verso un pubblico non particolarmente acculturato; un’estetica genericamente ispirata alla piacevolezza; l’eliminazione degli aspetti problematici e critici della produzione artistica.
Collegandosi a questi studi, definire un’opera come tecno-kitsch dipende non tanto dal giudizio estetico sul tipo di esperienza che offre, quando dalla sua maggiore o minore coerenza con le potenzialità offerte dalla creatività digitale e dagli sviluppi dell’innovazione tecnologica.

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